Sla, sperando in una cura

Contro la patologia, i ricercatori stanno sperimentando nuove molecole e terapie avanzate. Ma, per attestarne l’efficacia, servono ulteriori studi

Camminare, tenere in mano una penna, ingoiare un boccone. Attività semplici, quotidiane, che possono, però, diventare un ostacolo insormontabile per chi soffre di sclerosi laterale amiotrofica (Sla). La Sla è una malattia neuromuscolare caratterizzata dalla progressiva e irreversibile atrofia dei muscoli, dovuta alla morte dei motoneuroni sia inferiori che superiori. Classificata come rara, in Italia la patologia ha un’incidenza di due-tre casi ogni 100mila abitanti. Attualmente, l’aspettativa di vita dei pazienti è compresa fra due e cinque anni dalla diagnosi.

Due i farmaci approvati per il trattamento della malattia. Il primo, registrato 25 anni fa, è il riluzolo, un composto che esercita un’azione di neuroprotezione inibendo la neurotrasmissione glutamatergica e, quindi, limitando il meccanismo di eccitotossicità. Purtroppo, questo medicinale offre vantaggi minimi (tre-cinque mesi) in termini di prolungamento della sopravvivenza. Il secondo, approvato nel 2017, è l’edaravone, un radical scavenger che controlla lo stress ossidativo. I suoi risultati non sono, però, stati all’altezza delle aspettative.

Un mix di fenilbutirrato e taurursodiolo

Dopo i risultati deludenti ottenuti da questi due medicinali, una nuova molecola in sperimentazione sta accendendo le speranze dei malati. Si tratta di AMX0035, una combinazione di fenilbutirrato di sodio e taurursodiolo, formulata per la somministrazione orale. Agisce sulla crisi energetica innescata a livello mitocondriale dalla malattia e sulle proteine tossiche liberate nel reticolo endoplasmatico, intervenendo sulla sequela di eventi che conducono alla morte motoneuronale.

Il farmaco è stato testato in uno studio pubblicato nel 2020 sul New England Journal of Medicine e condotto dai ricercatori del Massachusetts General Hospital di Boston. A descrivere la ricerca è Corrado Iacono, farmacologo e dirigente farmacista della segreteria del comitato etico dell’Area vasta Emilia centrale (Avec) per Bologna e Imola:

Il trial Centaur, condotto su 137 pazienti, ha evidenziato un declino funzionale più lento, misurato sulla base del punteggio Revised amyotrophic lateral sclerosis functional rating scale, negli assistiti trattati con il farmaco rispetto a quelli assegnati al placebo, in un periodo di 24 settimane. Tuttavia, i risultati degli outcome secondari non sono stati significativamente diversi tra i due gruppi. Non è stato osservato alcun cambiamento nei biomarcatori sierici o nel tempo al decesso. Sono necessari, pertanto, studi più lunghi e più ampi per valutare la sicurezza e l’efficacia del farmaco.

CuAtsm

Gli scienziati stanno lavorando anche su CuAtsm, una piccola molecola in grado di attraversare la barriera emato-encefalica, in particolare nei pazienti con la mutazione del gene superossido dismutasi 1 (Sod1). Questo composto, una volta raggiunto il sistema nervoso centrale, riuscirebbe a rilasciare ioni rame sostenendo l’azione dell’enzima mutato. Avrebbe, inoltre, grazie a uno speciale sistema di drug targeting, uno specifico tropismo per i mitocondri delle cellule malate. Ottimi risultati sono stati ottenuti nel modello murino. La sperimentazione sull’uomo in questo momento è in fase 2-3. La molecola ha mostrato risultati significativi nel trattamento della severità della malattia e nel mantenimento delle funzioni cognitive in un gruppo di pazienti affetti da sclerosi in forma sporadica.

La “strada” delle cellule staminali

Contro la patologia sono state messe in campo anche le terapie più innovative. Come NurOwn, un trattamento autologo basato su cellule staminali mesenchimali designato farmaco orfano nel 2013 dopo una sperimentazione clinica durata 12 anni. Attualmente il produttore, Brainstorm Cell Therapeutics, sta fornendo il medicinale tramite un expanded access program a specifiche categorie di pazienti con la malattia in fase precoce. In pratica dal midollo osseo dei pazienti si prelevano le cellule mesenchimali. Queste cellule vengono espanse, fatte differenziare in cellule staminali mesenchimali indotte a esprimere livelli elevati di fattori neurotrofici, e successivamente reinfuse nei pazienti stessi. L’obiettivo è di promuovere la sopravvivenza motoneuronale.

«Uno studio di fase 2 condotto su 48 assistiti con sclerosi laterale amiotrofica ha raggiunto l’outcome primario di sicurezza», rende noto Iacono. «Questo risultato ha condotto a uno studio di fase 3 con lo scopo di valutare, nei pazienti con malattia a rapida progressione, la sicurezza e l’efficacia di somministrazioni ripetute. L’analisi dei dati è terminata nell’ottobre 2020 e ha evidenziato il mancato raggiungimento dell’obiettivo». Un esito che, tuttavia, non ha fatto desistere Brainstorm. Come riferisce il farmacologo, l’azienda «ha comunque avviato un confronto con la Food and drug administration (Fda) per concordare quali step seguire per approfondire l’uso della terapia nei pazienti con malattia in fase iniziale che, come sottogruppo nello studio di fase 3, hanno registrato una risposta clinicamente, anche se non statisticamente, significativa».

Anche oligonucleotidi antisenso

Per trattare le malattie rare la comunità scientifica sta, inoltre, lavorando sullo sviluppo di oligonucleotidi antisenso. Questi ultimi hanno come target uno specifico microRna, oggetto, nella sclerosi laterale amiotrofica, di fenomeni di upregulation, con l’obiettivo di riportarlo a livelli fisiologici.

«Uno studio di fase 1 che ha utilizzato gli oligonucleotidi antisenso contro Sod1 ha rilevato che il farmaco è stato ben tollerato e ha raggiunto i livelli previsti nel liquido cerebrospinale e nel plasma», evidenzia l’esperto. «In un successivo studio di dose-escalation, l’oligonucleotide somministrato per via intratecale ha mostrato una riduzione delle concentrazioni di Sod1 nel liquido cerebrospinale». 

Sono, inoltre, attivi due studi multicentrici di fase 1 sugli oligonucleotidi intratecali in pazienti con sclerosi laterale amiotrofica associata alla mutazione C9ORF72. 

A guardare alle prospettive del trattamento della patologia è lo stesso farmacologo, che dichiara:

Al momento, le evidenze disponibili non consentono di prevedere quale approccio terapeutico, tra quelli descritti, possa essere avviato a un uso nella pratica clinica. Tutto dipende, come sempre, da quanta ricerca verrà effettuata, un concetto ancora più importante nell’ambito delle malattie rare. Per questo motivo, attendiamo con fiducia ulteriori dati che possano chiarire il futuro di queste innovative frontiere di cura.

Un ulteriore, recente filone di ricerca ha preso il via dall’osservazione che la malattia risparmia i motoneuroni che innervano i muscoli oculari. Questa considerazione ha promosso gli studi su queste cellule e ha condotto all’individuazione del gene Synaptotagmina 13, che sembra un target promettente per ulteriori approfondimenti. Comprendendo quali sono i geni espressi solo da queste cellule si potrebbe, infatti, progettare un sistema per indurre la loro espressione anche nei motoneuroni vulnerabili alla malattia. A oggi, gli studi in vitro e nel modello animale sembrano fornire dati interessanti sulla correlazione fra il potenziamento dell’espressione di questi geni e il miglioramento del decorso della malattia.

Un biomarcatore per la diagnosi precoce

Il percorso per arrivare alla diagnosi di sclerosi laterale amiotrofica è lungo (fino a un anno) e complesso. Si articola in valutazioni cliniche e neurofisiologiche. Inoltre è corredato da un monitoraggio della progressione dei sintomi, che ha lo scopo di differenziare la malattia da altre patologie neurodegenerative. Questo ritardo rappresenta un limite al potenziale sviluppo di terapie adeguate e abbrevia l’intervallo di tempo disponibile per un intervento precoce. Per ovviare al problema, la Fondazione Don Gnocchi e l’Istituto auxologico italiano hanno sviluppato una nuova metodica diagnostica precoce, che consiste nel dosaggio di un biomarcatore contenuto in un campione di saliva. La validazione di questa tecnica rapida consentirebbe un’accelerazione della presa in carico dei pazienti.

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